Nella tradizione contadina, quella di qualche decina di anni e che stiamo progressivamente perdendo, non c’era una grande distinzione tra animali ed umani. In molti casi la convivenza era forzata per via di bisogni comuni, come ad esempio, quello di stare riparati dalle intemperie o di bere dalle stesse fonti d’acqua; in altre, si stabiliva un rapporto di collaborazione – non di sudditanza, ma di vera e propria collaborazione, in cui l’uomo si serviva degli animali per vivere meglio e in cambio questi non dovevano preoccuparsi di procurarsi il cibo o avere un ricovero. Arare i campi o raccoglierne i frutti era impensabile senza l’aiuto di buoi; e allo stesso tempo il contadino aveva necessità di mantenere i propri animali in ottima salute: e questo valeva anche per pecore, capre, cani, polli, maiali e qualsiasi altro animale vivesse con lui e la sua famiglia.
Ma non c’era solo uno scambio di abilità fisiche a fronte di cibo e riparo.
Spesso nascevano rapporti di convivenza che non erano solo basati sull’utilità ‘fisica’, ma anche su quella spirituale. Per i bambini, ad esempio, ogni animale era uno strumento di gioco; e tra un cane e una famiglia di contadini, c’era altro che il solo rapporto di collaborazione tra padrone e guardiano o aiutante nelle battute di caccia.
QUELLA vicinanza faceva bene.
Questi rapporti, anche quelli di carattere spirituale, facevano bene sopratutto agli esseri umani. Allora non lo si poteva neanche immaginare, ma oggi, dopo anni di ricerca, siamo riusciti a trovare il motivo per il quale quel naturale rapporto di vicinanza costituiva un rafforzamento delle condizioni dell’uomo e dell’animale. Se leggete questo articolo, ad esempio, capirete come il rafforzamento del sistema immunitario di un bambino passava anche per queste pratiche quotidiane di gioco e di divertimento.
E questo, l’articolo ce lo spiega bene, faceva sì che l’essere umano cresceva più forte e meno soggetto all’aggressività delle centinaia di fonti batteriche che ci circondano. Non era una vita semplice, ma se guardiamo al numero degli ottuagenari che vedo qui tra le colline marchigiane, al loro attuale piacere di vivere (c’è un detto da queste parti che dice:”La vecchia non voleva morire perché aveva ancora tanto da imparare”) e alla continua e ripetuta vicinanza con i loro amici animali, qualche vantaggio, questa vita, rispetto alla nostra, doveva averlo.
Scegliere un animale non significa togliersi uno sfizio.
Quanto detto potrebbe invogliare a comprarsi un cane o un gatto per il solo benessere che comporta avere un animale al proprio fianco. Non dobbiamo dimenticarci, però, il contesto in cui il rapporto uomo/animale si realizzava. Non era un rapporto unidirezionale: uno serviva all’altro, c’era collaborazione e soprattutto cointeressenza: ognuno partecipava alla vita sociale per quello che era, senza valutare quanto apportava alla ‘società’. D’altro canto, occuparsi dell’altro era una grandiosa forma di egoismo perché portava ad un beneficio per entrambi. Ma, attenzione! Occuparsi dell’altro non significa fare ciò che si pensa sia giusto per l’altro; significa entrare in tale simbiosi, da capire di che cosa l’altro abbia effettivamente bisogno ed offrirglielo.
Concludendo, il massimo beneficio derivante dalla vicinanza con un animale, nasce dalla capacità di capire cosa sia meglio per lui ma dal suo punto di vista, e non dal nostro. Solo così il rapporto diventa completo perché mentre gli animali sono naturalmente portati alla collaborazione e alla convivenza, anche quando questo non sembra (pensate ad un gatto, ad esempio), noi esseri umani tendiamo a credere di fare il bene del nostro animale, quando invece facciamo solo il nostro, egoistico – questa volta nell’accezione peggiore – interesse.