Un calabrone che insegna alle api come procurarsi del cibo con dei trucchi; uccelli di una stessa specie che hanno dialetti differenti tra una vallata ed un’altra; scimmie cappuccine che per una settantina d’anni acquisiscono un certo modo di comunicare con i gesti, che sparisce in un momento con l’avvento di nuove generazioni. Quello che chiamiamo cultura è roba di animali, insomma.
La cultura non è cosa nostra.
O almeno, non in via esclusiva. Per un qualche motivo che avrà sicuramente a che fare con la ‘semplificazione mentale’ siamo stati abituati a pensare che gli animali manifestino comportamenti piuttosto stabili nel corso delle diverse generazioni. Una gallina, un cane, un lupo, un orso, per come li conosciamo noi, fanno sempre le stesse cose, che siano nati 150 anni fa o l’altro giorno. Modificare abitudini in base alle necessità è prerogativa dell’uomo, c’hanno sempre insegnato; sarebbe quella roba che noi umani chiamiamo ‘cultura’, che si dovrebbe insegnare a scuola (almeno, qualche decade fa era così). Agli animali abbiamo sempre riservato il ruolo di simpatici zucconi che trascorrono la loro esistenza ripetendo una decina di azioni, senza capire bene che cosa stiano facendo. Mi sa tanto che ci sbagliamo….
Non c’abbiamo capito molto neanche stavolta.
In questo articolo apparso su Science ad Aprile di quest’anno, Andrew Whiten ci fa capire come le cose stiano in maniera differente.
Facendo un riassunto molto parziale (l’articolo è lungo e molto ben costruito, se ve la cavate con l’inglese, vale la pena leggerselo), lo zoologo e psicologo britannico elenca una serie di comportamenti animali che sono molto simili ai sistemi che usiamo noi umani per trasferire il sapere. Non solo. Questi modelli non sono per nulla fissi, o comunque dotati di una flessibilità trascurabile, ma mutano proprio a seconda di condizioni esterne, a volte indotte dall’uomo e come tali non previste in nessuna tabella comportamentale dell’animale. Ma c’è di più. Queste differenze non riguardano solo una specie, ma singoli gruppi all’interno di una specie. E le differenze non sono per niente di poco conto.
Tutti uguali, tutti diversi.
Gli uccelli, per esempio. Una stessa specie stanziale in una vallata, prende un ‘accento’ differente del proprio canto. Si tratterebbe di un vero e proprio dialetto, che quel gruppo acquisisce per qualche motivo e mantiene trasmettendolo ai nuovi nati. Come pure è stato osservato come alcuni Bighorn (che poi sono le pecore che popolano le Montagne rocciose), generalmente stanziali, una volta trasportate dall’uomo in un territorio sconosciuto, cominciano a ricercare spazi adeguati alle proprie necessita e a perdere quella loro caratteristica di stabilità territoriale, diventando quasi nomadi. E un comportamento interessante è anche quello delle megattere, che sviluppano suoni differenti in differenti gruppi, li insegnano ai propri piccoli e con questi suoni aprono nuove vie di migrazione nell’Oceano Pacifico.
Gli esempi che fa Whiten sono decine e tutti concordanti, nel definire come una qualche forma di necessità faccia sviluppare comportamenti mai osservati in specie che pure pensiamo di conoscere benissimo: se non è cultura, questa…
Non solo necessità, ma piacere.
Ora, che un animale modifichi un’abitudine per procurarsi del cibo differente da quello che ha mangiato fino a quel momento e che è diventato indisponibile, non stupisce nessuno. Ma che un comportamento sia completamente sganciato non solo da una necessità, ma anche da un codice sociale, da regole fisse, questa è un’altra faccenda. È, ad esempio il caso di uno scimpanzè, che decide di infilarsi dietro l’orecchio un filo d’erba. In sé il comportamento è un ‘non senso’ nel nostro modo di considerare uno scimpanzè: è inutile, improduttivo, e soprattutto mai visto fare da altri soggetti di uno dei quattro gruppi di scimpanzè osservati. Il comportamento però viene lentamente copiato da altri soggetti di quello stesso gruppo e non si è mai manifestato negli altri tre gruppi. Di più. Ogni volta che un nuovo soggetto veniva inserito nel gruppo ‘filo d’erba’, quello prendeva la stessa abitudine in voga nel gruppo.
Vivono con noi da Millenni e ancora non li conosciamo.
Se anche un comportamento apparentemente privo di qualsiasi valore oggettivo, o comunque non dettato da bisogni primari, viene copiato e riprodotto da altri membri di un gruppo, ciò significa che gli schemi di comportamento possono davvero mutare in dipendenza del soggetto ‘innovatore’ che lancia una moda o un’idea. Insomma, è esattamente quello che fa l’uomo nei suoi contesti sociali e che noi abbiamo sempre pensato fosse nostra prerogativa e che, evidentemente, non lo è.